Poliabortività
Ginecologo Dr. Luigi Cetta, specializzato in Infertilità e Sterilità della coppia
Poliabortività
Quando si può parlare di poliabortività?
La poliabortività è l’occorrenza di tre o più aborti spontanei consecutivi prima della ventesima settimana di gravidanza. La definizione di aborto spontaneo fornita dall’Istituto Nazionale di Statistica implica invece una interruzione involontaria della gravidanza prima delle 25 settimane e 5 giorni. Le definizioni adottate dai vari Paesi non sono omogenee e questo pone problematiche di confronti internazionali.
È molto diffusa?
Nel corso del tempo si è assistito ad un incremento dei casi di aborto spontaneo in Italia (dati ISTAT): da 56.157 casi del 1982 si è arrivati a 75.457 nel 2004 (ultimo dato disponibile), pari ad una crescita del 34%. Si parla quindi di 130 casi di aborto spontaneo ogni 1000 nati vivi.
È un problema della donna?
Il fenomeno è evidentemente legato all’età femminile: valori più elevati si hanno in corrispondenza di donne meno giovani (da trentacinque anni in poi), pur evidenziandosi un problema tra le adolescenti.
La rilevazione dei casi di aborto spontaneo effettuata dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) consente di tenere sotto controllo un fenomeno che è in crescita nel tempo, seppur lievemente.
Da cosa dipende?
Tra i vari fattori che concorrono a determinare elevati livelli di abortività spontanea, l’età della donna è certamente tra i più rilevanti.
Al contrario l’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) degli Stati Uniti ritiene del tutto inutile tale atteggiamento poiché l’aborto da distiroidismo o da tiroidite subclinica non è dimostrato da nessuno studio prospettico randomizzato. In definitiva le più accreditate analisi affermano che l’”apparente” coinvolgimento dell’attività autoimmunitaria tiroidea nell’aborto, può dipendere da condizioni diverse che nulla hanno a che vedere con una relazione causa-effetto. Sono considerate tre possibilità. La prima ipotesi è che gli autoanticorpi tiroidei siano solo un marker di una malattia autoimmunitaria più importante che interessa l’impianto dell’embrione. Alternativamente l’associazione tra aborto e autoimmunità tiroidea può essere spiegata dal fatto che tale condizione è in genere riscontrata nelle donne più attempate (quindi più soggette ad abortire).
Il sistema immunitario ha un ruolo?
Autoimmunità e in particolare Il Lupus Eritematoso Sistemico (LES) è una patologia sistemica di origine autoimmune che comporta manifestazioni cutaneo-viscerali, che si manifestano con crisi, associate alla presenza di autoanticorpi diretti contro i costituenti del nucleo cellulare. Questa malattia colpisce frequentemente le giovani donne e, di conseguenza, non ne è raro il riscontro durante la gravidanza. Per via della molteplicità delle manifestazioni riguardanti la malattia, l’Associazione americana di reumatologia ha stabilito dei criteri diagnostici, di conseguenza, la diagnosi di LES è fatta mediante il riscontro in un paziente, simultaneamente o in seguito, di almeno quattro degli undici criteri. Nella pratica clinica la diagnosi di LES, in una donna con aborti ripetuti, si basa sulla ricerca all’anamnesi di manifestazioni cliniche e sul dosaggio di anticorpo anti- nucleo.
Che cosa è l’alloimmunità?
Un’eccessiva risposta immunitaria materna contro gli antigeni paterni porta a una produzione abnorme di cellule immunitarie e di citochine; si ritiene che questa condizione sia associata all’abortività ripetuta. In particolare, in questo periodo, l’attenzione è focalizzata sul rapporto tra abortività ripetuta e cellule Natural Killer (NK). Secondo alcuni autori, le cellule NK nella mucosa uterina contribuiscono alla risposta citochinica all’interfaccia materno-fetale. Donne con aborto ricorrente tendono a produrre una risposta di tipo prevalentemente Th-1, sia nel periodo dell’impianto sia durante la gravidanza. Queste evidenze supportano la teoria che alterazioni della tolleranza immunologica nei confronti del feto potrebbero contribuire all’aborto ricorrente4.
Il rischio trombofilico ha un ruolo?
L’ultima ipotesi prende in considerazione la possibilità che alla base degli aborti potrebbe esservi un rischio trombofilico.
La valutazione completa di tutti i fattori trombofilici potrebbe non solo non essere utile ma indurre in errore a causa dei fisiologici cambiamenti in gravidanza come la riduzione della proteina C ed S [2]. Le Società italiane di Trombosi ed Emostasi insieme alla Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia hanno condiviso uno “statement” che cerca di limitare l’improprio uso di anticoagulanti in gravidanze che non hanno reali problemi trombofilici[3]. La presenza di anticorpi antifosfolipidi invece può essere utile; in caso di positività, si può instaurare un’efficace terapia preventiva.
Quando una donna è affetta da rischio trombofilico?
Secondo tutte le Linee-guida nazionali e internazionali s’intende “trombofilica” una gestante che presenta esclusivamente le seguenti caratteristiche: 1) ha avuto episodio di trombosi venosa 2) presenta anticorpi anti-fosfolipidi a elevato titolo; 3) presenta una marcata riduzione delle proteine S e C (al di fuori della gravidanza); 4) presenta bassi valori di Antitrombina 3º; 5) presenta alti valori di omocisteina (già al di fuori della gravidanza); 6) presenta mutazioni complete (omozigosi o doppie eterozigosi) dei fattori 5º e 2º di Leiden.
Cosa altro prendere in considerazione?
Altri dosaggi e ricerche non sono utili[3].
La mappa cromosomica di entrambi i partner ed eventuali altri esami immunologici possono essere utili.
Altre condizioni correggibili sono le malformazioni uterine, in particolare l’utero setto, e la presenza di formazioni quali i fibromi sottomucosi nella cavità uterina. Queste possono essere sospettate mediante l’ecografia transvaginale, ma diagnosticate con l’isteroscopia diagnostica ambulatoriale.
Esami infettivologici a livello della vagina e del collo uterino possono essere utili; è importante che tali esami siano eseguiti precocemente in gravidanza.
L’aborto è un problema di coppia?
Molti studi confermano che gli anticorpi che si formano sulla superficie degli spermatozoi e nel muco cervicale femminile (o nel sangue in entrambi i sessi) possono interferire con la motilità degli spermatozoi e con la loro interazione con gli ovociti. Questa condizione è presente in circa il 10% dei casi di infertilità maschile inspiegata (idiopatica) e in ben il 25-40% dei casi di infertilità di coppia senza causa apparente.
L’immunoinfertilità o infertilità immunologica dovuta alla presenza degli anticorpi antisperma è, come dimostrano i dati statistici disponibili, una causa importante d’infertilità negli esseri umani.
Entrambi i sessi possono produrre anticorpi che reagiscono con lo sperma umano.
L’infertilità immunologica di coppia può avere luogo anche quando il muco cervicale femminile si costituisce come un ambiente ostile allo sperma perché produce anticorpi diretti contro gli spermatozoi del partner.
L’uomo ha qualche implicazione?
Nell’infertilità immunologica maschile, invece, gli anticorpi antisperma si attaccano a diverse parti dello spermatozoo e interferiscono con la fertilità in diversi modi: gli anticorpi presenti sulla coda (flagello) degli spermatozoi tendono a immobilizzarli e a farli agglutinare (aderire) tra di loro, mentre gli anticorpi antisperma che aderiscono alla testa degli spermatozoi possono impedire l’attraversamento efficiente del muco cervicale femminile, e anche quando l’ovocita è raggiunto, possono rendere critica o impossibile la fecondazione.
Gli anticorpi antisperma circolanti, in altre parole presenti nel sangue, sono invece rilevabili nella maggior parte (70%) degli uomini che si sono sottoposti a vasovasostomia, l’intervento di ricostruzione delle vie seminali successivo alla vasectomia (resezione dei dotti deferenti che trasportano gli spermatozoi), i quali mostrano la presenza di anticorpi antisperma anche nel plasma seminale.
Sul versante maschile, può essere utile la valutazione della morfologia spermatozoi e della frammentazione del DNA degli spermatozoi.
Dott. Luigi Cetta Ginecologo
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